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Feb 01, 2023 Dario Orlandi Approfondimenti, Apt, RSS, Scenario 0
Armis ha annunciato la publicazione del report State of Cyberwarfare and Trends Report: 2022-2023, che evidenzia le impressioni dei professionisti IT e della sicurezza sulla guerra informatica.
Lo studio sintetizza le risposte di oltre 6.000 intervistati in diversi settori, tra cui sanità, infrastrutture critiche, vendita al dettaglio, supply chain e logistica e altro ancora.
L’invasione russa dell’Ucraina non solo ha sconvolto la vita dell’intera popolazione di una nazione sovrana, ma si sta riverberando nel panorama degli attacchi, causando un’escalation che cambierà l’approccio alla guerra informatica nel prossimo futuro.
Secondo Armis, oggi nessun obbiettivo è più precluso: qualsiasi organizzazione è una potenziale vittima, con infrastrutture critiche ed entità di alto valore in cima alla lista.
Nadir Izrael, CTO e co-fondatore di Armis, ha commentato: “La guerra informatica è il futuro del terrorismo sotto steroidi, poiché offre un metodo di attacco economico e asimmetrico, che richiede costante vigilanza e spese per difendersi”.
Nadir Izrael, CTO e co-fondatore di Armis
“La guerra cibernetica clandestina sta rapidamente diventando un ricordo del passato. Ora assistiamo a sfacciati attacchi informatici da parte degli Stati, spesso con l’intento di raccogliere informazioni, interrompere le operazioni o distruggere completamente i dati”, ha proseguito Izrael.
Il rapporto evidenzia come la tecnologia sia spesso un’arma a doppio tagloi, e che AI e ML stanno diventando sempre più presenti nella sicurezza informatica.
Queste tecnologie sono utilizzate per rilevare e rispondere alle minacce informatiche, ma al contempo ci sono preoccupazioni per il loro potenziale uso per scopi dannosi e la necessità di una maggiore supervisione.
Il rapporto Armis sottolinea la crescente preoccupazione per l’uso di AI generativa per sviluppare codice dannoso.
Le aziende devono affrontare minacce da attacchi informatici mirati a infrastrutture critiche come sistemi di controllo industriale o i dispositivi medici, che sono essenziali per il funzionamento della società moderna. Questi attacchi sono eseguiti da gruppi APT sofisticati e stanno diventando sempre più difficili da prevenire.
Nella prefazione al rapporto, Nadir Izrael osserva come gli analisti prevedano che entro il 2025 gli attaccanti saranno in grado di armare gli ambienti OT (tecnologia operativa) per ferire o uccidere gli esseri umani.
Queste armi informatiche cinetiche sono già state individuate in the wild, anche se nessuna è stata utilizzata con effetti letali. Ad esempio, il malware Triton nel 2017 ha disabilitato i controllori del sistema di un impianto petrolchimico dell’Arabia Saudita e avrebbe potuto causare un disastro se il problema non fosse stato identificato.
Nel febbraio 2021, un attaccante ha tentato di avvelenare l’acquedotto di una piccola città degli Stati Uniti tramite accesso remoto. Attacchi ransomware contro il settore sanitario hanno già provocare vittime umane, quindi il potenziale impatto degli attacchi informatici, intenzionali o meno, è evidente.
Il rapporto di Armis offre moltissime considerazioni interessanti: abbastanza preoccupante, per esempio, è l’indicazione secondo cui un terzo (33%) delle organizzazioni globali non stia prendendo sul serio la minaccia della guerra informatica, dichiarandosi indifferente al possibile impatto sulla propria organizzazione.
Quasi un quarto delle aziende (24%) si sente impreparato a gestire la guerra informatica, ma secondo gli intervistati gli stati nazionali lo sono ancora meno (22%). È opinione prevalente (64%) che la guerra in Ucraina abbia fatto crescere i rischi per tutte le organizzazioni.
Per la maggioranza dei professionisti, le attività degli attaccanti sono cresciute negli ultimi sei mesi, e sempre nella maggioranza dei casi le aziende hanno scartato o interrotto progetti di trasformazione digitale a causa delle minacce crescenti.
Il rapporto ha indagato anche sulla risposta agli attacchi ransomware: le risposte si sono distribuite in maniera abbastanza variegata. Quasi un quarto degli intervistati ha ammesso che la propria organizzazione paga il riscatto, mentre il 31% lo fa soltanto se i dati dei clienti sono a rischio.
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