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Apr 04, 2019 Marco Schiaffino Gestione dati, In evidenza, Leaks, News, RSS, Scenario 0
Si allunga l’elenco di esposizioni di dati personali dovuti a dimenticanze (sarebbe meglio chiamarla sciatteria) di amministratori di sistema che lasciano informazioni sensibili su server che possono essere visitati da chiunque.
Questa volta la vittima (indiretta) è una delle più celebri: Facebook. Gli utenti coinvolti sono 540 milioni e i loro dati (username, password, interessi, relazioni e molto altro) sono rimasti per chissà quanto tempo accessibili a chiunque sui server utilizzati da due app attive sul social network.
La prima si chiama At the Pool e contiene “solo” 22.000 record, tra cui gli account e le password memorizzate in chiaro. Secondo i ricercatori che hanno individuato il database non si tratterebbe presumibilmente delle password di Facebook, ma di quelle relative all’app.
Magra consolazione, visto che molti (troppi) utenti tendono a utilizzare la stessa password del loro account anche per le app a cui si iscrivono sul social network.
Il vero “pesce grosso” individuato dai ricercatori del Cyber Risk team di UpGuard è però Cultura Colectiva, una società con sede in Messico che raccoglie tramite la sua app Facebook informazioni sugli interessi di almeno 540 milioni di utenti Facebook.
Le informazioni (146 GB) erano conservate su un Bucket S3 di Amazon configurato in modo da permettere il download dei dati senza che fosse necessario fornire alcuna credenziale di accesso. Come spiegano i ricercatori di sicurezza nel loro report, il database cc-datalake conteneva informazioni su like e commenti, ma anche gli account, l’identificativo utente e altre informazioni personali.
L’elemento più preoccupante di tutta la vicenda, però, è come si è svolta. UpGuard spiega di aver individuato e segnalato a Cultura Colectiva il database “aperto” lo scorso 10 gennaio, senza ricevere risposta. Una seconda email sarebbe stata inviata il 14 gennaio, con lo stesso esito.
A questo punto i ricercatori hanno deciso di contattare direttamente Amazon Web Services. All’email inviata il 28 gennaio arriva tempestiva risposta (1 febbraio) in cui l’azienda annuncia di aver iniziato a cercare di gestire la situazione in un altro modo.
La svolta arriva solo il 3 aprile, quando Bloomberg contatta Facebook per chiedere spiegazioni e Cultura Colectiva, probabilmente “pressata” dal gigante dei social, si decide a proteggere il database in maniera appropriata.
Insomma, senza voler mettere in dubbio la buona volontà di Zuckerberg e soci nel tutelare la privacy degli iscritti a Facebook, siamo di fronte all’ennesima dimostrazione del fatto che la protezione dei dati personali rimane estremamente problematica.
Soprattutto in un ecosistema in cui operano centinaia di attori diversi e introdurre strumenti di controllo diventa estremamente problematico. Insomma: l’appello di Zuckerberg lanciato in una lettera aperta pubblicata sul Washington Post rimane attualissimo e impone ai governi di affrontare la questione.
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