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Lug 27, 2017 Marco Schiaffino In evidenza, News, RSS, Vulnerabilità 0
Una cosa è certa: il programmatore dell’NSA che si è inventato il nome di EternalBlue per il tool di hacking dei servizi segreti USA non avrebbe potuto trovare termine più azzeccato.
La catena di vulnerabilità individuate in seguito alla pubblicazione dell’exploit, infatti, sembra davvero destinata a essere “eterna”.
I dettagli dell’ennesimo capitolo li conosceremo solo sabato prossimo nel corso della presentazione che si terrà al DEF CON di Las Vegas, ma stando a quanto riporta Kaspersky, si tratterebbe di una vulnerabilità dei sistemi Windows presente da almeno 20 anni.
Guarda caso, la falla di sicurezza riguarda il “solito” Service Message Block (SMB) cioè lo stesso servizio su cui fa leva EternalBlue. Anzi: il ricercatore di RiskSense Sean Dillon che individuato la “nuova” vulnerabilità l’avrebbe scoperta proprio mentre stava analizzando il tool di hacking sviluppato dalla National Security Agency.
Ma di cosa si stratta? Secondo quanto anticipa Kaspersky, l’attacco permetterebbe di bloccare o mandare un crash un server Windows andando a saturare una sezione della memoria RAM che normalmente viene protetta. Il risultato è un crash del sistema.
La falla interessa tutti i sistemi Microsoft a partire da Windows Server 2000 e affliggerebbe tutte le versioni di SMB. Secondo i ricercatori che l’hanno individuata, offrirebbe ai pirati informatici strumenti estremamente efficaci per portare un attacco DDoS nei confronti di qualsiasi infrastruttura basata su Windows.
Dillon ha battezzato l’attacco SMBloris a causa di certe affinità con un’altra modalità di attacco (Slowloris) scoperta nel 2009.
La diffusione della vulnerabilità avviene a 60 giorni dalla comunicazione della sua esistenza a Microsoft, che però non sembra aver preso la cosa troppo sul serio. Stando a quanto riferisce Dillon, l’azienda di Nadya Satella avrebbe archiviato il bug come “moderato”.
Il motivo? Per portare l’attacco è necessario aprire numerose connessioni con il server e, di conseguenza, secondo Microsoft ci troveremmo di fronte a uno scenario poco plausibile che richiederebbe l’uso di grandi risorse.
Dillon, però, non è d’accordo. A suo giudizio, infatti, per portare l’attacco non server avere a disposizione una server farm o una botnet. Le connessioni necessarie possono essere aperte da una singola macchina. Anzi: per mettere KO il server sarebbe sufficiente un Raspberry Pi.
La verità la scopriremo dopo sabato. Se Microsoft ha ragione, non succederà nulla. Ma se dovesse avere ragione Dillon, prepariamoci a vederne delle belle.
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