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Set 10, 2025 Marina Londei Gestione dati, In evidenza, News, RSS, Tecnologia 0
Google dovrà pagare una multa salata da 425 milioni per informazioni vaghe e fuorvianti sulle proprie politiche di privacy: lo ha deciso la Corte distrettuale del distretto settentrionale della California, come riporta Malware Bytes.
Il caso è iniziato nel 2020 quando Anibal Rodriguez, un utente della compagnia, aveva intentato una causa contro il gigante tech accusandolo di aver confuso volontariamente gli utenti con le impostazioni “Attività web e app”. L’azione legale è diventata in seguito una class action.
Idealmente modificando queste impostazioni Google permetteva agli utenti di preservare la propria privacy disabilitando la raccolta di informazioni; in realtà, la compagnia non smetteva di raccogliere i dati, ma si limitava ad anonimizzarli.
Nel dettaglio, queste informazioni venivano raccolte tramite Firebase, un database per il monitoraggio delle attività che opera in maniera indipendente da “Attività web e app”. I dati venivano raccolti da applicazioni quali Uber, Shazam, Duolingo, Instagram e molte altre, con 98 milioni di utenti ignari di questa operazione.
I legali di Google si sono opposti all’accusa chiarendo che, modificando le impostazioni di privacy, viene mostrato all’utente un popup di conferma dal quale è possibile navigare su un dettaglio dei dati raccolti, e che quindi l’operato dell’azienda è trasparente.
I giudici, però, non hanno condiviso questa visione e hanno sottolineato che la compagnia dovrebbe essere più chiara nelle comunicazioni, soprattutto considerando che gli utenti spesso sono “superficiali” non dei lettori attenti; un dettaglio che, per quanto possa far sorridere, evidentemente ha avuto un certo peso nella decisione finale.
“Questa decisione fraintende il modo in cui funzionano i nostri prodotti” ha affermato Jose Castaneda, Policy Communication Manager presso Google. “I nostri tool per la privacy danno alle persone il controllo sui loro dati, e quando disabilitano la personalizzazione, noi rispettiamo quella scelta“.
In merito al caso, il giudice Richard Seeborg ha affermato che “Le comunicazioni interne di Google indicano che la compagnia sapeva di essere ‘intenzionalmente vaga’ sulla distinzione tecnica tra i dati raccolti da un account Google e quelli ottenuti al di fuori di esso perché la verità ‘sarebbe potuta sembrare allarmante per gli utenti’“.
Google ha comunicato l’intenzione di fare ricorso.
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